Nino Rollo
Lequile (LE) 1942 – Parigi (FR) 1992
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Scultura, 1982
calcare nero calabrese, cm 60 x 54 x 54
Donazione V. Capone, Lecce
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Ragazzo prodigio, uomo portato sempre all’eccesso, anarchico contro tutto e tutti, di cultura raffinata e curiosa, scultore e disegnatore, scrittore impetuoso, innamorato della vita e amico della morte, Nino Rollo non ha un posto rilevante nella storia dell’arte forse proprio per questi motivi, ma è stato una personalità forte e ha creato un’opera ancora in buona parte da scoprire e valorizzare.
Nato a Lequile, in provincia di Lecce, il 27 ottobre del 1942, a otto anni termina le scuole elementari. Dopo aver frequentato l’Istituto d’arte a Lecce, si diploma al magistero di Napoli nel 1959. La città partenopea degli anni cinquanta, vivace, fervida e vitale, è un’esperienza fondante umanamente e culturalmente, ricca di studi e incontri con personalità di spicco dell’arte e della cultura, di ricerche e di scoperte. |
Ha
infatti insegnanti come lo scultore Ennio Tomai, lo storico dell’arte
Raffaele Mormone e segue le lezioni dello scrittore Vasco Pratolini. Ha
inoltre la possibilità di frequentare gli studi di artisti quali Romolo
Vetere, Aldo Calò, Augusto Perez, Vincenzo Gaetaniello. Nell’atelier
di quest’ultimo incontra per la prima volta l’opera di Brancusi in una
riproduzione fotografica de Lo spirito di Buddha. Nello stesso periodo
ha modo di avvicinare l’opera di Henry Moore nella mostra antologica di
Valle Giulia a Roma.
Tornato a Lecce dopo il diploma, ad appena diciotto anni, inizia ad
insegnare nell’Istituto d’arte di Poggiardo.
Nello stesso anno l’esperienza del primo viaggio a Parigi, le visite
al Louvre, all’atelier di Brancusi e al Musée de l’Homme segnano una
svolta decisiva nella sua formazione.
Il periodo napoletano si rivela fondamentale anche per
l’apprendimento della tradizione del “fare”, del mestiere, come
l’intaglio del legno nello studio di Gaetaniello o la politura e le
patine delle fusioni metalliche nell’atelier di Tomai. Il mestiere è
sempre stato fondamentale per Rollo, così come il contatto
e la conoscenza del materiale. La capacità manuale è il mezzo che gli
permette di realizzare l’intima connessione tra pensiero e forma, tra
sé e la materia, l’indagine dei materiali non è solo una questione
tecnica ma una componente irrinunciabile per poter dialogare con la
natura, cioè fare scultura.
Aveva imparato a lavorare il ferro a scuola e nelle officine degli
amici artigiani, lo aveva usato agli inizi del suo lavoro, associato al
legno o alla pietra, in opere che risentivano dell’influsso della
scultura di Aldo Calò. Negli anni sessanta lavora soprattutto il legno,
grossi tronchi, lunghi anche due o tre metri e più, noce, quercia,
eucalipto, castagno. Leviga accuratamente le superfici e a volte le
ricopre con foglia d’argento o d’oro, con vernice d’alluminio e, più
tardi, con patine ottenute mescolando terre minerali, grafite e cera
come nelle tradizioni etniche africane.
Possiede una percezione quasi animistica degli elementi naturali, un
sentire che lo induce all’umiltà e al rispetto davanti al tronco o al
blocco da scolpire.
La scelta del taglio diretto, oltre che tecnica, è molto
caratteriale. Non conosce mezze misure, è contro ogni compromesso nella
vita e nell’arte, la sua ricerca di “assoluto” è quasi furiosa. Afferma
di essere un contadino e di lavorare per una scultura che “ha le radici
affondate nella terra ma lo sguardo rivolto al cielo”. Si sente
anarchico: “La scultura non procede per evoluzione, ma per
rivoluzione, è rottura drastica col passato, sovvertimento,
contraddizione”.
È, quello per la pietra, un amore assoluto, come nel suo carattere.
Afferma che i suoi veri maestri sono i calcari, i marmi, i graniti e si
dice “scultore pietrante”, rivendicando con orgoglio la sua simbiosi con
la pietra, risultato di un lungo percorso conoscitivo.
La solitudine è una dimensione necessaria, voluta e amata, nella
ricerca artistica di Rollo, soprattutto negli anni seguenti. Isolamento
dovuto alla posizione geografica – è infatti tornato a Lecce – ma anche
all’ambiente culturale un po’ sonnolento, come spesso capita in
provincia, più rivolto al sogno del passato che all’urgenza della
contemporaneità. Eppure la scelta di Rollo di restare al sud è
consapevole e decisa. Ha un rapporto di amore-odio con la terra natale
che spesso lo fa esplodere in invettive feroci, ma prova anche un
sentimento di profonda appartenenza antropologica.
Da uno dei suoi viaggi a Pietrasanta, nell’estate del 1982, torna con
una cassetta di lamine di pietre dure. Il colore di quelle pietre (il
blu della sodalite e del lapislazzuli, il verde della malachite, il
rosso del diaspro o il rosa della rodonite) lo aveva ammaliato ed
entusiasmato e segna l’inizio di una nuova ricerca materica.
Trascorre lunghe ore – giornate intere, quando non scolpisce, e parte
della notte insonne – chiuso nel suo studio. Là legge, scrive, disegna,
appunta, studia.
Come interlocutori ha i testi e le immagini dell’arte, senza confini
di tempo o di luogo, i testi di estetica, di filosofia, la saggistica.
Legge di poesia, di musica, è avido e curioso di tutto. Con questi
autori si nutre, dialoga, e sempre è con lui la pietra “che mi dà
splendidi consigli e quasi unica amicizia”.
In questo spazio prendono vita, le sculture che chiamerà reliquie
cosmiche, sculture-ostensorio, sculture silenziarie, sculture sonore,
pietre appese, sculture in libertà, le sculture con le piume, pietre del
silenzio.
Malato di cuore non si risparmia mai. Muore di cancro ai polmoni a
Parigi il 26 gennaio del 1992. Non ha ancora cinquant’anni.
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